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Lo scorso 14 febbraio 2023, con la sentenza n. 4571/2023, la Corte di Cassazione è tornata sul tema dell’onera probatorio gravante sul congiunto della persona deceduta che agisca per il risarcimento del danno da perdita parentale.
Il pregiudizio da perdita del rapporto parentale rappresenta un peculiare aspetto del danno non patrimoniale e consiste non già nella mera perdita delle abitudini e dei riti propri della quotidianità, bensì nello sconvolgimento dell’esistenza, rivelato da fondamentali e radicali cambiamenti dello stile di vita, nonché nella sofferenza interiore derivante dal venir meno del rapporto.
Trattasi di danno iure proprio del congiunto, ristorabile non solo in caso di perdita, ma anche di mera lesione del rapporto parentale.
Il fatto illecito (ovvero la condotta inadempiente) che cagioni la morte di una persona o ne comprometta l’integrità psicofisica, infatti, non lede necessariamente i soli interessi della vittima potendo ripercuotersi sulla sfera personale e patrimoniale dei soggetti ad essa legati da un vincolo parentale o comunque da una relazione affettiva, i quali, oltre alla riduzione o cessazione delle elargizioni economiche eventualmente ricevute dal congiunto anteriormente al sinistro, possono subire uno sconvolgimento della propria esistenza, generato dal fatto di non poter continuare a vivere il rapporto che intercorreva con la vittima, e sofferenze morali, talora di intensità tale da evolvere in vere e proprie patologie.
Il riconoscimento dell’autonoma risarcibilità di tali pregiudizi rappresenta l’approdo di un lungo percorso ermeneutico che, da un’originaria posizione di chiusura, ha condotto all’elaborazione di un sistema di tutela ancorato all’ingiustizia del danno, ovvero all’individuazione, in capo alle stesse vittime c.d. secondarie, di autonomi interessi meritevoli di tutela.
La risarcibilità del danno da perdita parentale trova fondamento nella Costituzione. Ogni vulnus arrecato ad un valore/interesse costituzionalmente tutelato deve essere valutato e accertato. In particolare, ad essere tutelata è l’intangibilità degli affetti che derivano dal rapporto di parentela.
Nel procedere all’accertamento ed alla quantificazione del danno risarcibile, il giudice di merito, alla luce dell’insegnamento della Corte Costituzionale (sentenza 235/2014, punto 10.1 e ss.) e dell’intervento del legislatore sugli artt. 138 e 139 Codice delle Assicurazioni come modificati dalla L. 4 agosto 2017, n. 124, art. 1, comma 17, – la cui nuova rubrica («danno non patrimoniale», sostituiva della precedente, «danno biologico»), ed il cui contenuto consentono di distinguere definitivamente il danno dinamico-relazionale causato dalle lesioni da quello morale – deve congiuntamente, ma distintamente, valutare la reale fenomenologia della lesione non patrimoniale, e cioè tanto l’aspetto interiore del danno sofferto (cd. danno morale, sub specie del dolore, della vergogna, della disistima di sé, della paura, della disperazione) quanto quello dinamico-relazionale (destinato ad incidere in senso peggiorativo su tutte le relazioni di vita esterne del soggetto).
La liquidazione finalisticamente unitaria del danno alla persona avrà pertanto il significato di attribuire al soggetto una somma di danaro che tenga conto del pregiudizio complessivamente subito tanto sotto l’aspetto della sofferenza interiore, quanto sotto quello dell’alterazione/modificazione peggiorativa della vita di relazione in ogni sua forma e considerata in ogni suo aspetto, senza ulteriori frammentazioni nominalistiche.
È noto come il danno non patrimoniale sia quantificato, valutando le circostanze concrete, utilizzando le tabelle in uso presso i Tribunali. Ma, con specifico riferimento al danno da perdita del rapporto parentale, quale è l’onere della prova del prossimo congiunto della persona deceduta che agisca per il risarcimento? Si tratta di un danno in re ipsa? È sufficiente provare l’esistenza del rapporto parentale o sussiste un onere della prova più ampio?
La recente sentenza della Corte di Cassazione si pronuncia proprio sull’onere della prova nei casi di danno perdita rapporto parentale. Tale danno costituisce danno-conseguenza che, come tale, va provato, non essendo qualificabile come danno «in re ipsa» (cioè sussistente per il solo fatto che v’era un vincolo parentale poi venuto meno), ma richiede la prova, precisa e circostanziata, dello sconvolgimento di vita patito e delle sue specifiche e concrete estrinsecazioni, non potendo risolversi in mere enunciazioni di carattere del tutto generico e astratto, eventuale ed ipotetico. In ogni caso, esso può essere allegato e dimostrato ricorrendo a presunzioni semplici, a massime di comune esperienza, al fatto notorio, dato che l’esistenza stessa del rapporto di parentela fa presumere la sofferenza del familiare.
Nel caso di morte di un prossimo congiunto, l’orientamento unanime della Cassazione è che l’esistenza stessa del rapporto di parentela faccia presumere, secondo l’id quod plerumque accidit, la sofferenza del familiare superstite, essendo tale conseguenza, per comune esperienza, connaturale all’essere umano. Se è vero, allora, che, tra parenti, il legame affettivo sussiste, occorre, se non la prova di questo legame, la deduzione degli elementi di fatto che giustificano tale presunzione e consentono al convenuto di identificare una possibile prova contraria da fornire nella causa di risarcimento per il danno da perdita del rapporto parentale. Trattandosi, infatti, di presunzione semplice, sarà sempre possibile per il convenuto dedurre e provare l’esistenza di circostanze concrete che dimostrano l’assenza di un legame affettivo tra vittima e superstite.